Nel febbraio del 2021, ancora in piena pandemia da Covid-19, uno studio della De Montfort University di Leicester, dimostrò che il ceppo del coronavirus può resistere fino a 72 ore attaccato ai tessuti.
Il virus fu testato su diversi tessuti, tra cui i tre più comunemente usati nell’assistenza sanitaria (poliestere, cotone e policotone), mostrando così come anche le divise sanitarie rappresentassero un rischio a livello di trasmissione del virus.
La dottoressa Katie Laird, la microbiologa che condusse la ricerca, affermò che portare a casa la propria divisa ospedaliera avrebbe contribuito a diffondere il virus su altre superfici, suggerendo che il lavaggio delle uniformi sanitarie fosse fatto in loco, affidandosi a un servizio di lavanderia industriale.[1]
Un anno dopo, nel febbraio 2022, insieme alla dottoressa Lucy Owen, del gruppo di ricerca sulle malattie infettive presso la De Montfort University di Leicester, Laird intervistò più di 1.200 infermieri, operatori sanitari e studenti di infermieristica in tutta l’Inghilterra, per conoscere le loro abitudini di lavaggio delle loro uniformi durante la pandemia da covid-19.
I risultati mostrarono che più di un quinto degli intervistati non rispettava le linee guida fissate dal National Health Service (NHS), il sistema sanitario nazionale del Regno Unito.[2]
Secondo Laird “Per ridurre al minimo il rischio di trasmissione, è fondamentale rimuovere le uniformi prima che gli operatori sanitari tornino a casa” oppure, in alternativa, le divise andrebbero lavate a casa a una temperatura superiore ai 71° gradi per una durata superiore ai 3 minuti.
Tuttavia, i dati confermano quanto sia difficile in ambito domestico applicare cicli di lavaggio della temperatura e della durata corretta, considerando anche il fatto che la maggior parte delle comuni lavatrici non sono in grado di raggiungere gli standard minimi di disinfezione stabiliti dalla legge.